Conquistato il San Pellegrino in Alpe.

Doveva ancora sorgere il sole dietro a Mont’Ovolo quando presi a scendere verso Vidiciatico. Sbagliando, avevo risparmiato un po’ di spazio e avevo deciso di non prendere l’antivento. L’aria era cambiata, il caldo si era fatto da parte e aveva lasciato passare un’aria più fresca, che nello scendere verso Fanano irrigidiva i miei muscoli e le mie articolazioni.
 

Un cervo prima e un capriolo poi attraversavano la strada a scendere dopo la Masera, mentre il primo raggio di sole svegliava Sestola.

Il fondovalle velocissimo e i ragazzi pronti ad aspettarmi al Boschetto, pronti, ma forse non prontissimi, alle prime salite che gli avrei fatto fare.

Il muro di Olina che costeggiava dall’alto lo Scoltenna, e la salita verso Vaglio, trovarono inaspettate le forze nelle gambe dei ragazzi.


Per la prima volta eravamo più di tre e tutti con la divisa del team, era bello girarsi e vedere la fila verde che salita, arrancava ma non demordeva, su quelle arcigne pendenze.

Dopo meno di 20 km il dislivello aveva già superato i 500 metri, i visi erano provati e la strada da fare ancora lunga, con il mostro del SanPellegrino che ci aspettava incurante del fatiche che avremmo fatto prima.

A Vaglio quidi scendemmo nuovamente verso Valle e in fila indiana prendemmo la galleria che tagliava MonteCreto.

Mai caffè a Riolunato fu più gradito, servito da una bella mora brasiliana, nel bar pieno di simpatici vecchietti, richiamati da quella tropicale visione, poco consumavano, se non gli occhi e vecchi pensieri sopiti.

Pievepelago arrivava con ancora il sapore del caffè in bocca, erano da poco passate le nove ma il paese ribolliva già di vita estiva. Lo attraversavamo con gli occhi ben aperti e concentrati cominciavamo a salire verso il Passo delle Radici.

Sedici chilometri, lunghi e poco costanti, ma di una reale bellezza che al cospetto alcune salite dolomitiche possono apparire noiose e brulle autostrade troppo trafficate.
Ai 1550 metri della cima il cielo azzurro annunciava un vento leggero e fresco che svegliava dalle belle fatiche pedalate nel salire.



San Pellegrino distava due chilometri e mezzo da qui, ma il mostro, il versante più duro, la salita regina dell’Appennino, parte dall’altro versante, da Pieve Fosciana.

La lunga discesa dai Casoni di Profecchia, quasi trenta chilometri, lungo Castiglione Garfagnana, pedalata in tranquillità, era la giusta preparazione fisica e mentale per affrontare quei dodici chilometri terribili a scalare l’Alpe.
Un'ora e passa di fatica e preghiera che raramente scendevano sotto l’otto per cento e culminavano con gli ultimi tre chilometri vicino al venti.
Il paese più alto dell’Appennino ci aspettava con la sua pieve e il suo albergo ristorante, dove gentilmente il gestore ci preparava panini prosciutto e formaggio che sarebbero stati come un pranzo nuziale dopo quell’ora a guardare tra l’asfalto e il cielo.



Arrivare lassù in cima è sempre una vittoria. Una salita che molti dividono in due, la prima parte pedalabili la seconda al limite dell’equilibrio. Se è vero che la seconda parte, con i suoi diciotto per cento, è un esercizio di forza ed equilibrio, la prima parte non è assolutamente agevole. Le pendenze sfiorano e spesso superano, come per uscire dal borgo di Chiozza, la doppia cifra. Concentrarsi sul paesaggio, sui splendidi boschi che si attraversano, gli orti che si costeggiano con zucche arancioni giganti a guardarti, richiede una lucidità che spesso lo sforzo non concede.


La discesa andava comunque conquistata ancora, perché per uscire dal paese un’altra rampa di un chilometro ci aspettava per poi lanciarci nuovamente verso il Passo delle Radici e Pievepelago.

La salita verso Montecreto era leggera, appariva quasi pianura confronto al San Pellegrino di un ora e mezza prima, ma era comunque fatica, tra boschi di castagni verdi e profumati, quella fatica l’affrontavamo ognuno del proprio passo, ma alla fine spingendoci anche troppo forte.


Dopo il borgo modenese ci raggruppavamo, (anche se forse Denis non la pensava così), Sestola era in vista e anche gli ultimi chilometri di salita per chi aveva parcheggiato sul fondovalle.


A chi scrive toccava ancora salita, una ventina, poco meno, per salire verso le pendici del Corno Alle Scale.

La gamba girava bene, i nuvoloni che minacciavano le alte cime non incutevano timore nel salire e il sole splendeva e scaldava anche troppo.

Allungare fu naturale, invece di affrontare la Masera in salita come l’avevo percorsa in discesa, svoltai a sinistra verso Castelluccio, su quella strada distrutta che la settimana prima aveva visto Gianluca sbucciarsi le natiche e sbattere la schiena.

Senza arrivare a Castelluccio svoltavo in via Selva, ricordando che quella strada arrivava, non senza salire e soffrire a Querciola, passando da un chilometro di sterrato vallonato e arrivando così in discesa alla Masera.

La salita verso LaCá da Farnè serviva per chiudere il circuito, per superare i 190 km e soprattutto i 4000 metri di dislivello.

Era l’ultimo giro in bici dell’estate in montagna, Un’estate ciclistica che era senza precedenti e che probabilmente sarebbe restata per sempre.

Senza Alpi, solo Appennini, duri, impervi, verdi e affascinanti da non voler mai smettere di pedalare.


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