Prunetta in inverno.

È sceso dalla macchina e ha guardato dritto verso il bar. Il suo sguardo è apparso subito deluso e amareggiato, il bar era chiuso, e il cartello cercasi personale non lasciava molti dubbi sul perché. Da un paio di anni quando ci trovavamo a Silla la partenza era dal bar gelateria che da decenni era al centro del parco cittadino. Gianluca non aveva preferenza sul cappuccino o sul ginseng, sul caffè lungo o macchiato, ma quella ragazza alta dai capelli così neri è dal decolté spettacolare lo aveva da subito capito. Per la seconda volta, in pochi mesi non c’era più ed ormai era un dolce ed eccitante ricordo. L’assenza della prorompente ragazza era solo il segnale che qualcosa non andava per Gianluca. Aperta la sacca con le ruote quella davanti era completamente sgonfia, eppure un’ora prima caricata in auto, risultava gonfia. Era riuscito a bucare in auto la gomma della bicicletta.

Ero partito da La Cà alle otto precise, il sole ancora non aveva toccato tutte le borgate del paese, il freddo si sentiva e dopo aver riempito la borraccia alla fontana avevo affrontato accorto la discesa verso Vidiciatico. Due chilometri e già il caldo anomalo di questo fine inverno aveva fatto sentire la sua potenza. Il vento del giorno prima sulle vette del Corno con le ciaspole ai piedi non si sentiva e con il sole in faccia veloce pedalavo e pennellavo le curve per il ritrovo coi ragazzi a Silla.

Senza Caffè ma con la voglia di pedalare nel sangue, Ramon e Galluzzo si mettevano davanti di buona lena diretti verso la Toscana lungo quello splendido serpente che è la Pracchiese, tra una curva al freddo gelido dell’inverno e quella successiva baciata dal sole che già richiamava le maniche corte.

Ramon il richiamo lo aveva sentito già da Bologna e in manicotti e gambali di vero pelo umano faceva finta di non sentire il freddo pungente delle curve nascoste dai monti e bagnate dal Reno, attento però che la pelle d’oca non gli infilasse qualche pelo in mezzo alle ruote.

Venti chilometri di serpentina da spingere di potenza poi a due chilometri dalla cima la montagna prende la strada e la porta in cielo. È il Passo dell’Oppio da Porretta, ed è subito lì alla partenza che capisco che di foto a Galluzzo è Ramon non ne farò molte. Pedalavano leggeri eppure spingendo, pedalava leggere eppure faticavo. Tre settimane fermo con l’influenza mi avevano dato una bella botta, ma la voglia di pedalare vinceva su tutto, anche sull’intelligenza del capire che potevo pedalare ancor più leggero.

Il Carnevale, una festa che serve per colorare il grigio inverno. A San Marcello Pistoiese e in tutta la sua montagna ci riescono benissimo. Festeggiano, sfilano con i carri e già di mattina presto chiudono il centro. Una piccola deviazione dovuta alla propria alla festa ci metteva paura, facendoci affrontare una discesa al venti percento. La salita per il ritorno sulla statale per fortuna non era così cattiva e velocemente scendevamo verso la Lima girando qualche centinaio di metri prima verso Prunetta.

Come può risultare diversa una salita fatta in estate oppure fatta in inverno. Prunetta ne è la perfetta testimonianza. È sempre lei, sale dolce, nonostante all’inizio e a metà qualche tornante impegni più del dovuto, ma è tutta da spingere, di potenza lungo i suoi 11 km che portano in cima al paese, crocevia tra chi vuole andare a Pistoia oppure a Montecatini. In inverno quello spingere risulta così diverso da far sembrare Prunetta a 2000 metri di quota, e non ad 800, simile ad una città colombiana piuttosto che ad uno splendido borgo toscano. Lorenzo pedalava con me chiacchierando e chiacchierando ci si aiutava a non esagerare, a tenere a bada l’agonismo e a godersi le querce e i castagni che accompagnavano la strada. Un chiacchierare che la faceva passare veloce, anche se poi Strava a casa diceva che così piano mai la si era fatta.

In cima, in paese, l’acqua della fontana riempieva le borracce e mentre Gianluca, vuoto ma mai domo, ci raggiungeva, noi in attesa ci si godeva i discorsi di paesani autoctoni, senza c e con troppe h, dialogare allegramente con altri paesani, diciamo meno autoctoni e più dalla parlata facile con il Vesuvio nel sangue. La meraviglia dell’Italia e degli Italiani, sentirci parlare, ridere e scherzare, non vi è altro paese al mondo speciale come il nostro.

Il Reno sgorga pochi metri sotto il paese e seguivamo lui per scendere di nuovo verso Porretta. Quel serpente che avevamo scalato per arrivare a Ponte Petri, ora andava disceso come il fiume faceva poco più in basso. Un serpente che disegnava una discesa tecnica, tutta da spingere con alcuni strappi taglia gambe che, insieme al vento, la rendevano dura come una salita.
Ale, Lorenzo e Ramon faticavano veloci verso Ponte della Venturina, io e Gianluca invece, con le gambe agili, li ritrovavamo solo alla fine, insieme ad un mal di braccia che ricordava quello dopo una discesa di downhill in Mtb.

Prima o poi riasfalteranno anche quel bellissimo serpente che si inerpica su per l’Appennino che è la Pracchiese.

Il lungo rettilineo di Silla la sera prima era pattugliato, giustamente, dalla polizia municipale. Veloci, spesso troppo veloci, le auto sfrecciano verso Gaggio incuranti, non le auto ma chi le guida, che quel quasi km di rettilineo è in pieno centro abitato.
Noi pedalavamo tranquilli, e ognuno con la propria tranquillità, iniziavamo la salita verso Gaggio.

Avevo scritto ritmo blando quando avevo organizzato il giro e Gianluca, sornione, mi aveva ascoltato. Un po’ la delusione del bar chiuso, un po’ la stanchezza del giro del giorno prima, per ottanta chilometri aveva spedalicchiato senza perché, ma con la meta precisa di salire fino a a LaCà e scendere di nuovo alla macchina.

Pedalava agile di fianco a me e io convinto di fare la salita insieme a lui guardavo gli altri tre, Lorenzo, Ramon e Ale, salire veloci verso la montagna.

Ci sono volte che è difficile capire chi fa la salita con chi, io la facevo con Gianluca o lui la faceva con me. Era un quesito difficile da capire, ma dopo Grecchia la difficolta svanì.
Recuperai i pochi metri persi dopo Gaggio, nel falsopiano a Gabba, ma lì dove sorge il più antico campanile di tutto l’appennino bolognese, li dove la frana aveva mangiato la chiesa e indurito la montagna, Gianluca si alzava sui pedali e mi andava via. Un chilometro dopo, controllando lo sforzo e sicuro di poterlo riprendere, crollai definitivamente.

Alla Casaccia Gianluca era svanito, io fermo andante verso Querciola, piantato come la mucca di plastica che mi guardava stranita.

Mi dovevano accompagnare a La Cà e cosi han fatto.
Anche se accompagnare significa stare con te.

Pedalavo solo tra i castagni spogli da Farne verso La Cà e solo pensavo che quei numeri cosi vicino allo zero in quel tratto, bello e apparentemente facile, mai gli avevo visti.
I ragazzi erano fermi alla fontana del vecchio laghetto e di Villa Marisa, quel condominio obbrobrioso che in passato fungeva anche da balera e che ormai era diventato un’icona, brutta ma significativa della montagna bolognese. Fermi alla fontana, quasi asciutti, come se avessero fatto una doccia e si fossero già cambiati, pronti a scendere verso la macchina ancora parcheggiata a Silla.

Era ancora inverno in Appennino, un inverno strano, alla sua fine con le primule a bordo strada e il bosco ancora in letargo.

Avevamo pedalato veloci, nonostante tutto, matti come il meteo moderno da cambiamenti climatici, che però non riusciva ad cambiare una montagna che regalava sempre giornate stupende








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