Marmotte 2018 la Granfondo!

Le prime luci dell’alba devono ancora arrivare quando suona la sveglia. Il grande giorno è arrivato e l’alzataccia non pesa neanche tanto. L’aria è frizzante e profuma di bosco quando apriamo il balcone. Il ghiacciaio riluce del piccolo quarto di luna che è ancora alto in cielo che pian piano dal nero della notte diventa sempre azzurro. Nessuna nuvola all’orizzonte, colazione da granfondo, vestizione e si parte, in discesa giù dall’Alpe d’Huez verso Borg d’Oisans.

La discesa non è particolarmente fredda, vestiti da inverno arriviamo al borgo ai piedi dell’alpe e lasciamo il vestiario negli zaini, con anche il cambio per la cima del Galiber, ai ragazzi di Blufreccia, come sempre fantastici, che ci accolgono con un bel caffe.

In valle l’aria pela, l’umidita del fiume è molto più cattiva e fredda di quella che ci ha accarezzato in discesa scendendo dall’Alpe e aumenta la voglia di partire. La partenza dal centro del paese arriva dopo poco, infreddoliti ognuno parte come si sente. Loris, Saba, Sitta e Tognetti spariscono subito nel gruppo davanti, io mi fermo a fare due chiacchiere con il gruppo Cherella, finché non butto l’occhio avanti e vedo Guido, Ale e Doriano in fila indiana. Giù due denti e li raggiungo, li metto alla mia ruota e li porto di gran carriera fino alla diga, dove anche Guido dà una trenata e dove raggiungiamo il Bufalo Scomazzon che si presta alla causa e ci aiuta a portare davanti i ragazzi verde fluo.

Il Glandon  è la prima salita di giornata, venti chilometri che salgono a gradoni dell’8% di pendenza.

Salgono in mezzo al bosco, attraversano un tipico paesino alpino, Le Riviere D’Allemont, e poi si buttano sull’altro versante della montagna con una discesa di un paio di chilometri.

La ripresa della salita è terribile, la vedi già nei tornanti in discesa finali e ti lascia senza fiato. Un drittone di qualche centinaia di metri al 14%, tutti in filaad arrancare con le gambe dure e il cuore in gola. Poi torna la discesa e si torna sul versante opposto. Meno cattiva la ripresa ma sempre abbastanza dolorosa. Così fino alla diga, dove spiana e iniziano gli ultimi chilometri verso i duemila metri del Col du Glandon.

Fuori dal bosco a sinistra i pascoli sconfinati a destra il lago. Arrivare in cima in una scenario così ti fa dimenticare le fatica fatta e quella, tanta, che dovrai ancora fare. Ognuno qui è andato del suo passo, mentre il gruppo Cherella, Sangiorgi, Rapparini, Cuzzani, Piva la faranno insieme e sarà così tutta la granfondo, io raggiungo vicino alla cima Ale e Doriano. Davanti chissà da quanto ormai saranno passati.

La discesa ha il cronometro fermo, l’organizzazione ha preferito fermare il tempo per la pericolosità della strada. Non conta molto, c’è chi rischia lo stesso, perché non pensa al chip ma guarda il tempo del Garmin, e a pensarci, è naturale sia così.

Nello scendere, pur non vedendo il nome di chi si ha davanti, i tedeschi e gli olandesi si riconoscono subito. Impacciati, in mezzo alla strada, traiettorie fantasiose, freni tirati, sono molto più pericolosi di chi ti fischia e ti sfreccia a fianco, come fosse su una bici da pista.

Sono poi gli stessi che in pianura, nei 25 chilometri che separano la fine della discesa dall’inizio del Telegraphe, invece si mettono davanti a trenare il gruppo ai quaranta orari e a mettermi in crisi.

Staccarsi sarebbe la soluzione giusta, che la testa però non accetta. Doriano insiste perché soffra e rimanga con loro lo ascolto e sbaglio. Svolta a destra si passa sotto il ponte della ferrovia e inizia il Telegraphe. Ale mi dice qualcosa, ma non lo sento, Doriano ci incita in francese, lo guardo sui pedali andarsene verso il bosco francese.
I primi sei chilometri sono costanti, belli e cattivi all’otto per cento, il traffico è aperto e mette un pò in difficoltà, soprattutto chi e più indietro.

Io non rivedrò più Doriano e Ale e ai meno 6, lì dove venerdì avevamo visto il ciclista fumare mi fermo per bisogni fisiologici e per alimentarmi. Guardo le facce di chi mi passa e mi guarda fermo. C’è chi sembra sia appena partito e che non abbia già 90 km sulle gambe, ma c’è anche chi sembra ne abbia fatto 300.

È una giornata calda ma ai meno tre, per fortuna, c’è un ristoro e anche in cima. Poi la discesa, corta, solo cinque chilometri verso Valloire, là dove inizia la lunga e meravigliosa scalata del Galiber.

Si attraversa Valloire che la salita è già iniziata, dolce, qualche strappetto più consistente ma mai cattivo. Fuori dal paese, percorsi ormai già tre chilometri, c’è un grande ristoro. Sembra triste, all’occhio saltano solo albicocche secche, datteri, aranci, ma poi basta spostare lo sguardo ai lati e appaiono vassoi di salame, di “jambon “e soprattutto forme di brie spettacolari che sicuramente non sono salutari con quello che si deve ancora pedalare, ma non assaggiarle sarebbe un crimine contro il lavoro dell’uomo.

I primi dieci chilometri che in auto apparivano tanto semplici, in realtà salgono costanti e dritti all’otto per cento. È talmente costante e dritta questa parte di salita che a fermarsi un attimo sembra quasi pari, la realtà però è ben diversa e le gambe non sentono le sensazioni, ma solo la dura realtà.

Ai meno dieci la montagna gira e la strada impenna. I fittoni delle salite storiche, situati a lato, continuano a segnature una pendenza media dell’otto per cento. Sarà, ma per quanto sale la strada la doppia cifra sembra una certezza.

La fatica è tanta, ma lo spettacolo è immenso.

Le Marmotte fischiano ripetutamente, stranite da questa lunga fila di pazzi essere umani in sella a quella strana ferraglia.

Gli ultimi quattro chilometri si vedono tutti, lassù in cima, dietro una curva si può intuire dove sono posizionati i tour operator e il nostro Blu Freccia.
Sono all’ultimo chilometro, poco prima del tunnel per le automobili che taglia la montagna.
Ad accoglierci i sempre pronti ragazzi di BluFreccia hanno acqua, crostate, frutta e la Santa Coca Cola. Ma hanno soprattutto tutti i nostri zaini, con il rifornimento per la parte finale e il cambio per la discesa.

Non servirebbe in una giornata così calda, (in cima a 2700 metri il termometro segna ventidue gradi), ma togliersi tutto quel sudore di dosso e mettersi qualcosa di asciutto, è un vero toccasana. Saba tirerà dritto, il nostro folletto scalatore praticamente non si fermerà mai se non all’attacco dell’Alpe, dal ristoro dei grandi genitori Sitta, un vero professionista che merita sempre più grande ammirazione.

Da Blufreccia mi raggiunge Gianluca quasi stranito di vedermi. Lo anticipo verso la in cima giusto per fargli due foto, poi insieme, dopo un panino salame e brie, attacchiamo la discesa.  

Dai 2700 metri del Galiber ai 700 di Borg d’Osais sono cinquanta chilometri, quarantacinque di discesa, cinque di falsopiano, in discesa.

Nei primi dieci, per arrivare al Col de Lautaret, la strada è poco più larga di un auto, senza alcuna protezione verso i pendenti pascoli alpini.

E da vertigini.

Poi, arrivati al Lautaret, la strada diventa normale a due corsie, come normale e il vento contro.
La discesa, nonostante tutto e velocissima, si rimane quasi sempre sopra i cinquanta km/h e l’unico momento in cui bisogna riprendere a spingere sui pedali è all’altezza del Lac du Chabmbon, dove la discesa diventa salita per un chilometro scarso poco, poco prima della diga al cui termine riprende la discesa.(Ma quanti invasi ci sono in questa zona di Francia?)

I chilometri scorrono veloci anche sotto i numerosi tunnel per cui l’organizzazione ci ha regalato delle utili lucine, (quelle che funzionavano), marchiate Marmotte. 

A Borg d’Osains i chilometri sono 162, mancano solo i dodici dell’Alpe d’Huez. Solo.
Gianluca mi riprende al ristoro e mi sorpassa, io mi fermo all’ufficiale, lui a quello dei Sitta.

Sarei per fermarmi anche io, ma lo vedo davanti e voglio riprenderlo.

Saluto i genitori di Alberto, li ringrazio lo stesso per il grande servizio offerto e raggiungo Gianluca.

Lo raggiungo, lo saluto, inizia la salita e mi stacco, definitivamente. 

L’Alpe d’Huez è la storia del Tour de France, è la storia del ciclismo.

Ogni tornante, e sono ventuno, un cartello ricorda un vincitore sull’Alpe.

Parla tanto Italiano.
I nostri Bugno e Pantani ne hanno due.
Conti e Guerini uno.

Al tornante di Hinault un’immensa maglia gialla si arrampica sulla roccia.

È uno spettacolo autentico.

Ma se bisogna essere sinceri, come salita in sé, è normalissima. Dura è dura, fino all’ottavo chilometro non scende mai sotto il nove certo, con tratti anche superiori.

I tornanti sono tutti pari, trampolino di lancio per i più in forma, riposo per chi arranca, una presa in giro per chi è in crisi completa.

Affrontarla dalle 14 alle 17 rende ancor più dura l’impresa. Sono già quattromila i metri ascesi e il termometro segna trentatré gradi. Fino ai 1400 metri ti schiacciano sull’asfalto e sono in tanti che cercano sollievo sotto gli spinelli dei ristori con gentili indigeni che annaffiano questi pazzi ciclisti amatori.

Arrivare all’Alpe però vale tutta questa sofferenza. Pian piano che gli alberghi diventano più grandi, più l’adrenalina aumenta e la fatica scema. C’è ma come per magia non si sente più.

In paese la gente applaude e dall’ultimo chilometro all’arrivo sembra veramente di essere eroi.

Attraverso il tappetino del chip con il cuore a mille, non per la fatica, perché non ne avrebbe più, ma per l’emozione. Stacco le mani del manubrio e con forza urlo. Come Pantani.

La Marmotte è una vera sfida con se stessi, affrontarla, e vincerla terminandola, è impresa per pochi.

E anche se i pochi sono sempre di più, arrivare quassù è da veri pazzi ciclisti!

LeMarmotte le andè, socmel ben! 


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