Al Sole di Marzo.

Il sole appena sorto conquistava le cime delle colline e piano piano scaldava la terra spazzata via da un’aria fredda che però sapeva di primavera. Le caviglie nude avevano bisogno di parecchi chilometri e del sole per scaldarsi e per non sentire quel pizzicore tipico dell’ibernazione. Prima la valle del Samoggia, Zappolino e il dente del Leone, poi quella del Landa passando i tornanti di Montemaggiore e le vigne appena sveglie baciate dai primi raggi, poi la picchiata verso la Bazzanese da San Lorenzo. I chilometri scorrevano sotto le ruote, adagio ma ben pedalati e insieme ai chilometri anche i minuti avanzavano e l’orario del ritrovo si avvicinava di pari passo ai chilometri percorsi. Il tempo di sciogliere i primi dislivelli di giornata per la dolce pianura da Madonna dei Prati a Tombe e poi lungo via Rigosa fino alla Viro, con i ragazzi già schierati solo ad aspettare il via del boss, che preciso più come uno svizzero, che come un altoatesino, non ritardava  neanche un minuto e si metteva davanti a tirare verso MontePastore. 

Loris pedalava agile ma deciso, gli si stava a ruota bene ma l’andatura faceva intendere che la giornata sarebbe stata lunga. Dopo Calderino, preso il lungo rettilineo del fondovalle del Lavino, si spostava e mi faceva passare. I dubbi se mantenere la sua andatura, o calarla, duravano il tempo della folata di vento che ci veniva incontro. Le gambe mulinavano non troppe agili contro un vento maligno che non si capiva da dove arrivasse, ma che comunque era sempre contro. Uno strappetto solo sul fondovalle e Galluzzo mi affiancava, sornione e con un sorriso che spingeva più forte delle sue gambe si metteva a tirare. Pochi chilometri dopo, con una ripetuta degna dei giorni migliori, partendo dall’ultima posizione e arrivando in testa dove lui tirava, prendevo tutto il poco fiato che mi era rimasto e a nome di tutti gli chiedevo di rallentare, finendo l’agonia di chi, nelle retrovie, soffriva troppo l’allegra regolarità del buon Galluzzo. 

Il sole cominciava a scaldare e lungo i tornai verso Monte Pastor, qualcuno apriva la lampo della felpa, mentre altri abbassavano addirittura i manicotti, altri ancora invece rimanevano impassibili prendendo tutto il caldo che riuscivano grazie anche allo sforzo della salita costante, ma mai cattiva.

Il caldo improvviso svuotava le borracce e la sosta, nella fresca sorgente di Tolè, era l’ideale per riempirle e rifocillarsi tra barrette e gel delle Lifecode che riempivano e nutrivano le gambe già pronte a partire, nuovamente veloci, subito in salita. 

Una sosta rigenerante che ci faceva affrontare gli ultimi strappetti prima di Cereglio in scioltezza e che non ci fermava nella lunga, veloce e divertente discesa, che tra sorpassi e controsorpassi ci portava a Vergato e ad attaccare, senza alcun riposo, la salita di Labante. 

Labante, un piccolo borgo nascoso nell’Appennino, tra grotte e cascate spettacolari. La grotta in paese si può ammirare anche dalla strada, ma spesso quando si arriva lì, proprio a metà salita, la lucidità è concentrata solo sullo spingere e lo sguardo è fisso sull’asfalto, o sulla ruota davanti. 

Dodici chilometri che lasciano spesso prendere una boccata di ossigeno, ma che poi ti ricacciano in apnea per lunghi tratti mai costanti. Dodici chilometri che se entri in crisi diventano interminabili, diventano ventiquattro, diventano lo Stelvio unito nei tre versanti, con l’arrivo a Castel d’Aiano che diventa la cima dell’Everest. Una salita bella, e come tutte le belle, stronza. E chi scrive ne sa qualcosa. 

Un Caffè o una Coca, un attimo di riposo che riordinava le idee e rinfrescava le gambe, poi ognuno andava per la sua strada. 

Chi come Loris, Ale e due Lorenzi, allungavano fino al Passo Brasa, scendendo a Montese e tornando verso Bologna da Villa d’Aiano e Montalto, con Ale talmente in forma che si permetteva di scendere cinque chilometri in più e tornare indietro fresco come l’aria che respirava. Chi invece prendeva subito verso la Bassa, pedalando veloci verso Zocca, poi Monte Ombraro e giù verso la Valsamoggia e la Pianura Padana. 







Sì la pianura, questa eterna sconosciuta!

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